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Il “peso” solitario


Una sera a Londra attraversavo, solitario, il ponte del Northern Dock a Canary Wharf, assorto nei miei pensieri. Brezza tra i miei ormai sparuti capelli e giacca a vento aperta e svolazzante. Pensavo al “peso” dei problemi clinici e psicologici che “assorbo” ogni giorno di lavoro (ora nel mio studio medico e durante le visite a domicilio); pensavo alle ore passate dallo psicologo per alleggerirmi e per maturare risposte sempre più aderenti alle problematiche che mi si pongono quotidianamente. Un “peso” che affronto da solo, con le armi della preparazione, della competenza, della esperienza e della psicologia, che cerco di avere nel mio bagaglio di medico. Empatia nei modi e nelle parole, comprensione e atteggiamento positivo, anche nei momenti “clinicamente” più difficili. Meditavo sul come non soccombere a questo “peso” , cercando di capire se la mia strada fosse quella corretta. L’università, almeno quella italiana, non ti prepara ad affrontare questo “peso”, quello delle morti, quello della sofferenza altrui, quello delle decisioni. Non ti prepara ad affrontare la miriade di Persone che incontri e che curi, alle loro sfaccettature ed alle tue. Non insegna a dominare la paura di sbagliare, di non essere all’altezza, del sentirti inadeguato nonostante il grande impegno. Quella sera era l’Ottobre 2019 e nulla faceva presagire la pandemia che di li a pochi mesi sarebbe giunta a mietere milioni di vite. Ero impreparato, ma non nell’animo che già aveva affrontato dolori e insuccessi. Forse è per questo che è stato automatico rendermi disponibile, volontariamente, in prima e seconda ondata, senza rendermi conto che avrei potuto morire. E non sono morto anche se, con la depressione che oggi curo, sono rimasto ferito. Proprio ora però penso che la pandemia abbia rafforzato il mio spirito di sacrificio e la mia empatia. Penso spesso a quella sera e ai pensieri attraversando il Northern Dock: ora so di poter portare quel “peso” a modo mio.